Il Carnevale nel teatro d'opera
di Felicita Pacini
UNA PAROLA PER MILLE MUSICHE
La parola di febbraio: MASCHERA
Prossimo appuntamento: sabato 6 marzo
In questo articolo vorrei presentare due esempi in cui il Carnevale si è incontrato con il teatro d’opera. Esistono molti titoli operistici in cui compaiono più o meno espliciti riferimenti al Carnevale o all’immaginario delle maschere della Commedia dell’Arte, ad esempio: Benvenuto Cellini (1838) di Hector Berlioz, opera che fu molto apprezzata da Franz Liszt ma non dal grande pubblico, e da cui poi è scaturita la più celebre ouverture orchestrale Le Carnaval romain (1852), l’operetta Der Karneval in Rom (1873) di Johann Strauss, Le maschere (1901), “commedia lirica e giocosa” di Pietro Mascagni e Arlecchino oder Die Fenster (1917), “capriccio teatrale” di Ferruccio Busoni.
Tratterò, tra i grandi capolavori, La Traviata (1853) di Giuseppe Verdi e un’opera, assai meno conosciuta e più recente, Rappresentazione e festa di Carnasciale e della Quaresima (1962) di Gian Francesco Malipiero.
Ricordiamo tutti l’infelice storia d’amore tra Violetta e Alfredo messa in musica da Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma di Alexandre Dumas figlio, La Dame aux camélias (1848). L’opera è ambientata tra Parigi e la campagna limitrofa e narra della giovane cortigiana Violetta Valéry che, innamoratasi profondamente, per la prima volta nella sua vita, del giovane Alfredo Germont, vive una breve stagione di intenso amore. Fino a quando questo sogno d’amore viene bruscamente interrotto dalla richiesta, da parte del padre di lui, Giorgio Germont, di separarsi da Alfredo; sacrificio, questo, a cui Violetta, suo malgrado, accetta di sottostare. Ben presto la salute della giovane donna peggiora e, nel corso del terzo atto, il dramma si consuma.
Violetta, all’inizio della terza scena, giace sul letto gravemente ammalata di tisi mentre «tutta Parigi impazza» per il Carnevale. È proprio qui che Verdi, con straordinaria risoluzione drammaturgica, volle porre in risalto questo periodo. Il compositore inserisce il Carnevale parigino sullo sfondo al culmine della vicenda e lo spirito gaio e spensierato della festa appare, in confronto al dolore e all’infelicità di Violetta, superficiale, inopportuno e contrastante. Nel romanzo di Dumas la morte di Marguerite Gautier-Violetta era collocata in altro periodo dell’anno, ma Verdi scelse proprio il Carnevale per sottolineare la contrapposizione – e in ciò è il senso fondamentale dell’opera – tra i moti dell’animo dei protagonisti e il mondo esterno, già rappresentato dalle sfarzose scene di festa, risate, divertimenti, balli e brindisi. Così, alla struggente romanza in la minore Addio del passato bei sogni ridenti (atto III, scena IV), introdotta dall’oboe solo e cantata con espressione «dolente e pianissimo» da Violetta, segue l’«allegro vivacissimo» del «coro baccanale» Largo al quadrupede (atto III, scena IV) che si ode fuori scena. Si parla del bue grasso «sir della festa, / di fiori e pampini / cinto la testa» che la tradizione carnevalesca parigina, in voga negli anni contemporanei a Verdi, voleva che sfilasse per la città seguito da un corteo nel quale «allegre maschere» e «pazzi garzoni» applaudivano «con canti e suoni». Già nel secondo atto Verdi fa riferimento a questi festeggiamenti con il coro dei «mattadori» e dei «piccadori» spagnoli che attendevano di assistere alla sfilata cantando «Di Madride noi siam mattadori, / siamo i prodi del circo de’tori; / testé giunti a goder del chiasso / che a Parigi si fa pel Bue grasso» (atto II, scena XI). All’arrivo di Alfredo, pronto a implorare il perdono di Violetta, l’allegria del corteo sembrerebbe poter contagiare anche i due amanti ritrovati, se soltanto la tisi non avesse ormai vinto la dolce e fedele Violetta.
Verdi, in quest’opera della trilogia popolare, utilizzando il contesto come espediente drammaturgico, si dimostra non solo grande compositore e musicista, ma anche profondo conoscitore del teatro, convinto che ogni azione musicale debba contribuire al significato del dramma per musica.
La produzione teatrale di Malipiero conta diversi titoli che hanno per tema la maschera, tra i quali vorrei ricordare: Morte delle maschere (1922), Finto Arlecchino (1925), Capitan Spavento (1955), Metamorfosi di Bonaventura (1963).
La mia scelta è caduta sulla Rappresentazione e festa di Carnasciale e della Quaresima, una breve opera con balletto per coro, solisti e orchestra, composta nel 1961 ed eseguita per la prima volta in forma di concerto nel 1962 al Teatro alla Fenice, in occasione degli ottant’anni del compositore. Nel 1971, all’Opera di Roma, fu riproposta in forma scenica seguendo dettagliatamente le indicazioni didascaliche dell’autore. Malipiero, che è anche librettista dell’opera, precisa nel frontespizio del libretto di aver tratto e ridotto il testo letterario «da un’edizione fiorentina del 1558 di autore ignoto».
Secondo quanto è riportato nelle didascalie sceniche dell’autore, la scena è divisa tra una grotta, quasi buia, dove sta la regina Quaresima e, su un rialzo al di sopra di questa, una taverna spaziosa in cui siede «maestosamente il Carnasciale, con una collana di salsicce e un fiasco in mano». In un clima di danza animata Carnasciale invita tutti a godere della vita e a ripristinare così «il nostro stato di felicità che ci era tolto per punto di ragione». Circondato dai suoi fedeli, Cappone, Berlingaccio e il cuoco Masuolo, fa approntare cibi e bevande per mostrare «come si usa il Carnasciale». Per tutta risposta ai messi della Quaresima che lo invitano a un «ravvedimento», a scanso di un irrimediabile castigo, Carnasciale continua con il suo sfrenato esortare a «far bella la vita, perché chi ben vive ben muore». All’inizio della quinta e ultima scena si annuncia a Carnasciale, «re dei goditori», l’approssimarsi degli armati incaricati di attuare l’intendimento della Quaresima, che, alla mezzanotte, irrompono sulla scena. La lotta con la gente di Quaresima mette tutti in fuga, e lascia alla fine soli Carnasciale e il suo cuoco affamato, che inutilmente si raccomanda a san Cappone, con un esito di fatale perdizione.
Siamo di fronte a un’opera tarda dell’autore che confessava di lottare tra due sentimenti: «il fascino per il teatro e la sazietà per “l’opera”». Egli appartiene a quella generazione, cosiddetta dell’Ottanta, che voleva tagliare i legami con il melodramma ottocentesco ma anche con il verismo del primo Novecento. Malipiero si muove su una linea mediana tra uno stile pienamente contemporaneo e la ripresa di stilemi musicali pre-ottocenteschi, come dimostra anche quest’opera nella quale la critica ha rilevato dei richiami al barocco operistico. Risulta totalmente assente l’enfasi sentimentale e la stereotipata struttura stilistico-vocale del melodramma, per lasciar posto, invece, a uno sviluppo drammatico più libero, nella ricerca del ritmo plastico proprio del teatro musicale.
La Commedia dell’Arte ebbe nel primo Novecento una renaissance in molti versanti artistici e le tante maschere dell’opera malipieriana – spunto per una affascinante indagine – ne rappresentano una parte rilevante. Scavando sempre più a fondo al loro interno, Malipiero può affermare, per bocca del suo Bonaventura nelle Metamorfosi: “Guai se le maschere mi abbandonassero”.
Articolo di Felicita Pacini
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