Pierrot e Pulcinella
Due maschere della tradizione nel repertorio novecentesco
di Anna Farkas
UNA PAROLA PER MILLE MUSICHE
La parola di febbraio: MASCHERA
Prossimo appuntamento: sabato 13 febbraio
«…Io, Don Polecenella Cetrulo, nato a la Cerra ntra li ciuccie,
e cresciuto e pasciuto e Nnapoli ntra li sartmbanche,
sempe malato de mente, e sempre sano de cuorpo…»
Oggi ci proponiamo di fare un viaggio dall’Italia del Cinquecento fino ai giorni nostri, nel quale seguiremo la storia e la nascita di due maschere: Pierrot e Pulcinella. Entrambi nascono alla metà del Cinquecento, divenendo figure tradizionali della Commedia dell’arte assieme a tanti loro amici maschere tra cui Brighella, Capitano, Pantalone, Colombina e, tra i più amati, Arlecchino. I caratteri cinquecenteschi riprendono vita e energia, mutando continuamente, attraverso l’interpretazione di generazioni di attori come i Cammarano che rendono amato Pulcinella fino alla corte dei Borboni di Napoli, o Giratoni, che porta Pedrolino in Francia, dove egli diviene ‘petit Pierre’, dunque Pierrot.
Chi sono dunque queste due maschere, figure o caratteri? La loro storia è tanto multiforme quante le loro apparizioni sui diversi palcoscenici; di questo è motivo la loro popolaresca origine e quindi la trasmissione orale delle loro figure che vennero continuamente rimandate con piccole correzioni e cambiamenti. Come esempio riportiamo solo i vari racconti d’origine di Pulcinella. La prima apparizione di questa figura viene spesso collegato al servo romano del IV secolo, un buffone di nome Maccus; altri immaginano che egli prenda vita dalla storia di un contadino di Acerra, Puccio d’Anniello, che nel ‘600 si unì ad una compagnia di girovaghi; altri studiosi invece lo chiamano Cetrulo di Acerra.
Una storia similmente complessa potremmo incontrare percorrendo i racconti d’origine di Pierrot, ma forse in queste poche righe, senza pretesa di completezza storica, è meglio interrogarci intorno a quali siano i tratti caratteriali principali di queste due maschere; o meglio, vedere come essi sono stati tramandati fino ai primi del Novecento, come la loro storia fosse stato accolto da un compositore russo e da uno tedesco.
Il Pulcinella di Stravinskij (1920) sembra rispecchiare il tipo napoletano: astuto, ironico, vitale, abile ad uscire da tutti i pasticci con un sorriso. L’inclinazione alla danza e alla comicità è pienamente messa in risalto dalla ritmicità del balletto stravinskiano. Ma cos’è che dà a questa musica una vitalità tanto pulsante? Le musiche del Settecento italiano (abbiamo già delineato i tratti stilistici del neoclassicismo in un altro articolo). E’ Diaghilev a commissionare Pulcinella a Stravinskij sulla scia di precedenti riadattamenti di musiche del passato sulla scena, tra cui Boutique Fantastique, nel quale è stato Respighi ad adattare le musiche di Rossini; sarà dunque l’impresario russo a suggerire l’uso del materiale di Pergolesi. Stravinskij, inizialmente esitante, si butta poi con grande piacere nello studio delle musiche di Pergolesi; questo consisteva anche nello studio degli abbozzi e delle opere incompiute e quindi non pubblicate del compositore italiano. Stravinskij si troverà dunque immerso in una grande quantità di materiale nuovo, dichiarando infatti che in quei mesi dovette suonare tutto il Pergolesi disponibile, per scegliere i brani da integrare nel balletto.
Studi musicologici posteriori hanno però dimostrato che solo nove delle diciotto musiche scelte da Stravinskij dall’opus pergolesiano sono effettivamente attribuibili al compositore italiano, mentre il resto delle musiche appartiene in realtà ad altri compositori minori, tra cui Domenico Galli, Fortunato Chelleri. Pulcinella, quindi, diventa un gioco complesso di mascheramenti, dove Pergolesi non è più Pergolesi, Stravinskij non è più Stravinskij. La musica è in continua metamorfosi e l’intervento del compositore russo sul materiale di Pergolesi trasforma la materia. Questo intervento consta soprattutto nell’orchestrazione; infatti, viene trascritta spesso per orchestra una sonata a tre, un’opera originariamente scritta per tre strumentisti; anche le scelte nella strumentazione sono particolari, per esempio con accostamenti di vari strumenti a fiato per effetti coloristici. Oltre all’orchestrazione, sporadicamente si sentono accenti sfalsati o accordi dissonanti, che la mano abile di Stravinskij nasconde nella partitura, senza mai farsi troppo notare.
All’orchestra – che è costituita da un organico ridotto, scelta con la quale Stravinskij sicuramente ha voluto avvicinarsi alle sonorità dell’originale settecentesco – si aggiungono anche tre cantanti solisti. Uno dei movimenti più caratteristici, che ci riportano nel cuore di Napoli, è proprio un duetto intitolato Una te fa la nzemperece, (Stravinsky: Pulcinella – 10. “Sento dire no’ncè pace” – “Una te fa la zembrece” ) una canzone popolaresca in dialetto stretto. In generale, tutta la musica del Pulcinella è caratterizzata da un ritmo sprizzante di vivacità e al contempo elegante, caratteristico delle musiche del Settecento; ciò si sposa bene con la trama intrigante, tipicamente italiana, che vede al centro il protagonista Pulcinella: di lui sono innamorate le ragazze napoletane, e dunque di lui sono gelosi i ragazzi. In un gioco di metamorfosi, Pulcinella, grazie alla sua astuzia, riesce a sfuggire tutti i pericoli. Il balletto si chiuderà dunque con lieto fine, sempre grazie a Pulcinella, che con la sua allegria e simpatia riesce a mettere d’accordi tutti: ognuno potrà sposare la propria amata.
Dopo la figura gioiosa della maschera napoletana ci caliamo in un’atmosfera più cupa: quella del delirio onirico di Pierrot, musicato da Schönberg (1912); ma prima di addentrarci nell’opera, vediamo chi è questo Pierrot. Come abbiamo accennato sopra, le sue origini vanno ricercate nella figura di Pedrolino, o dell’ancora più antico Zanni, un servo simpatico e astuto che si caccia sempre in guai. In Francia, mantenendo sempre i suoi panni del servo, verrà però trasformato in una figura triste, malinconica. E’ questo che viene simboleggiato con la sempre presente lacrima nera della sua maschera. Il testo del Pierrot lunaire di Schönberg è basato sulle poesie del belga Albert Giraud, il quale riprende proprio queste caratteristiche della maschera: la nostalgia e i suoi amori impossibili per la Luna e per Colombina, un’altra maschera che però non ricambierà mai l’amore di Pierrot.
L’opera schönberghiana è divisa in tre parti, ognuna costituita da sette ‘meloghe’, cioè declamazioni accompagnate musicalmente. E’ proprio su questo carattere poetico della declamazione che dobbiamo soffermarci; in questa opera Schönberg introduce il concetto di Sprachstimme, cioè un canto parlato, o, al contrario, la parola intonata ad altezze precise indicate dal compositore. Questa particolare scrittura vocale insieme all’accompagnamento musicale – che è ascrivibile alla sfera della musica da camera, con pochi strumenti (pianoforte, violino, violoncello, clarinetto, flauto) – sono i tratti musicali che rendono quest’opera particolare. E’ l’avversione verso l’orchestra romantica esuberante – condivisa per altro anche da Stravinskij nel suo Histoire du Soldat (1918) – a indurre Schönberg a questa scelta, resa ancora più particolare con l’accostamento della voce, costante e sempre presente in quanto protagonista, con diversi raggruppamenti di strumenti, oppure con uno strumento solo; vengono raggiunte così le timbriche tanto particolari di quest’opera. Le frequenti rappresentazioni con il soprano vestita da Pierrot ingannano, come anche il testo, che parla in fondo solo in terza persona del protagonista e dunque l’io lirico pare non sia Pierrot; ma questo gioco di ambiguità fa parte del carnevale.
Le tre parti che dividono l’opera sono tematicamente diverse: la prima parte presenta Pierrot secondo la descrizione che ne abbiamo dato sopra, ingenuo, buono e innamorato della Luna e di Colombina (No.1 Mondestrunken, No.2, Colombine). E’ nella seconda parte che l’uomo nostalgico rappresentato da Pierrot, incapace di integrarsi e trovare il suo posto nel mondo, comincia a delirare, immaginandosi di essere un omicida, capace di fatti cruenti (da No. 8 a No. 14); qui, l’amata Luna diventa lo spettro di «una splendete spada turca», che colpirà il colpevole Pierrot (No. 13 Decapitazione, Schoenberg Pierrot lunaire no. 13 Enthauptung – YouTube). La nostalgia di Pierrot viene invece rappresentata nella terza parte, nella quale egli torna nella sua patria, in Italia, a Bergamo – ma perché proprio Bergamo? perché Zanni, da cui egli deriva, è un servo buffone po’ rozzo bergamasco. E’ in questa parte che il testo diventa sempre più ironico e ci ricorda l’essenza e il motivo del mascheramento: il divertimento.
Le due maschere, Pulcinella e Pierrot, sono spesso state riprese anche da altri autori – tra cui Debussy, Busoni – e sono tutt’ora amate. Potremmo forse individuare il motivo della loro fortuna nella loro versatilità, che rende possibile adattarli a varie situazioni: possiamo sempre trovare una nuova storia nel quale calare la loro figura, e loro vi si adatteranno, arricchendo la propria maschera con altri tratti caratteriali. E’ proprio questo costante rinnovamento che livella l’antichità delle loro figure in una convivenza fortuita del vecchio e del nuovo, di cui esempio sono le due opere oggetto di questo articolo.
Articolo di Anna Farkas
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