Schumann e la pazzia. Fardello o dono?
di Anna Farkas
UNA PAROLA PER MILLE MUSICHE
La parola di febbraio: FOLLIA E VISIONI
Prossimo appuntamento: sabato 20 marzo
Il protagonista degli articoli di questo mese è la follia. Il caso forse più noto di disturbo mentale nella storia della musica, è quello legato al nome di Robert Schumann; nonostante la sua malattia, che, come vedremo, lo ha accompagnato per tutta la vita, egli è uno dei più grandi compositori e pianisti della propria epoca e le sue opere risuonano tutt’ora nelle sale da concerto. Allora – oltre a ripercorrere i fatti di cronaca per capire l’evolversi della vita e della malattia di Schumann – è utile interrogarci sul concetto di follia e sul rapporto che essa intrattiene con il processo creativo ed artistico.
Come è noto, Schumann muore nel 1856 nel sanatorio di Endemich, presso Bonn, dove egli è stato internato dal 1854. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, egli non muore per motivi legati alla sua salute mentale, ma per un avvelenamento dovuto alla somministrazione del mercurio con il quale all’epoca curavano la sifilide, malattia che in realtà egli aveva contratto molti anni prima. Il periodo in manicomio è privo di avvenimenti nella vita del musicista per via della sua instabilità mentale, ma su questo ci soffermeremo in seguito. Più interessante sono invece gli anni precedenti – per quanto riguarda i fatti di cronaca della vita di Schumann – che vedono la progressiva perdita di coscienza del compositore e il conseguente internamento in manicomio. Per ripercorrere questa finestra della sua vita che si sgretola sotto il segno del disturbo mentale, tratteremo le Geistervariationen (o Variazioni dello Spirito) per pianoforte, l’ultima composizione di Schumann.
L’opera è stata finita pochi giorni prima che il compositore entrasse in manicomio. Come ci testimoniano i diari della amata moglie Clara, pianista e braccio destro del compositore (anche nel senso letterale della parola, in quanto Robert perderà l’uso della mano destra, in seguito ai suoi esperimenti dannosi per rafforzare la mano!), Schumann nella notte tra il 17 e il 18 febbraio sente sussurrargli dagli angeli una dolce melodia, riecheggiante la tradizione dei corali, in mi bemolle maggiore. Questo canto semplice risuonerà in tutte le cinque variazioni che seguono il Thema.
La forma delle variazioni sarà particolarmente amata dai compositori romantici. Il caro amico della famiglia Schumann, Brahms, scrive numerose opere in questa forma, tra le quali importante è la Variazione su un tema di Handel. Schumann usa invece questa forma per comporre la Variazione sul nome Abegg. Confrontando le Geistervariationen con i due sopracitati brani, si notano significative differenze: nel primo il tema è chiaramente percettibile in tutte le variazioni, inoltre, queste non si allontanano nemmeno troppo dallo spirito limpido e calmo del Thema iniziale. Invece, nelle Variazioni Abegg – che è per altro l’op. 1 di Schumann ed è dunque cronologicamente lontana dalle Geistervariationen – il tema è percettibile solo rarissime volte ed esso si sacrifica per un libero virtuosismo. Nelle variazioni brahmsiane la forma delle variazioni guadagna dimensioni grandiose degni di una sonata, con il numero delle variazioni che spesso si avvicina a venti, mentre le cinque variazioni dall’ultima opera schumanniana sono piuttosto modeste.
Con queste considerazioni non si vuole giudicare le Geistervariationen come inferiori; l’opera è relativamente corta e non è caratterizzata da una particolare difficoltà tecnica – né pianistica né compositiva –, ma questo non determina certo una inferiorità di contenuto. Si tratta di una musica intima, la cui semplicità tradisce che il suo compositore era ormai più rivolto alle cose di un altro mondo che al nostro, dove invece bisognava tenere contro della destrezza tecnica della propria scrittura e del possibile successo da riscuotere. Le ipotesi intorno alla motivazione di Clara nel non pubblicare il manoscritto, motivo per il quale la prima pubblicazione dell’opera è solo del 1939, sono due: uno, motivato dall’inferiorità dell’opera; l’altra invece dovuta all’attaccamento personale di Clara alle ultime pagine, per altro così intime e soavi, scritte dal marito. L’opera, probabilmente per la così tarda pubblicazione, è poco conosciuta ed eseguita.
Il carattere quasi beato della composizione stride con le condizioni mentali nelle quali ha lavorato Schumann. Qualche giorno dopo l’‘ispirazione angelica’ del 18 febbraio – che è in realtà la riapparizione di una vecchia melodia già utilizzata in varie altre composizioni, tra i quali il Lied Frühlings Ankunft – il compositore scrive le cinque variazioni. Dopo una prima bozza andata perduta, Schumann comincia a comporre una nuova versione delle Variazioni. Il giorno 27 febbraio interrompe però bruscamente il lavoro, preso da una crisi di depressione, ed esce di casa per dirigersi verso il Reno; viene ripescato dal fiume mezzo ghiacciato da dei barcaioli e riportato a casa dopo il tentativo suicida. Nonostante l’episodio tragico, finisce di lavorare, ormai da solo, perché la moglie Clara si trasferisce da un amico su consiglio del medico di famiglia. Lo stato del compositore peggiorava da tempo ed egli, cosciente della sua malattia, chiede alla moglie di poter essere internato in un istituto; questo avviene il 4 marzo 1954, nella stessa settimana nella quale termina le Geistervariationen.
Com’è possibile che un compositore possa scrivere una musica talmente angelica e qualche minuto dopo gettarsi nel fiume in preda ad un attacco? E più in generale, come è possibile che soffrendo sin da giovane età di crisi depressive, Schumann abbia potuto comporre nel frattempo la musica forse più leggera, più spiritosa e dolce, la quintessenza del Romanticismo? Capire quale sia stata esattamente la sua malattia (l’ultima diagnosi è di ‘disturbo bipolare’) e i sintomi precisi di quella patologia, non è il compito di questo articolo – di tutt’altra natura – ed è inoltre assai difficile da definire, considerando l’arretratezza della psichiatria ai tempi di Schumann. Una parola che emerge però spesso nelle descrizioni dello stato mentale di Schumann è ‘melancolia’.
Partiamo da questa parola, di antica veste, intorno ad una breve concettualizzazione dello ‘stato di follia’. La melancolia o ‘lipomania’ – un’altra parola che si trova anche nelle diagnosi del compositore – è caratterizzata da «una tristezza morbosa e ostinata, da un pessimismo invincibile», e l’origine della parola risale all’antica teoria patologica dei temperamenti umorali, definendo quattro principali personalità – collerico, flemmatico, sanguigno e melancolico – in base alla costituzione dell’uomo. La melancolia assume un altro significato durante il Rinascimento: precisamente con le teorie neoplatoniche, Marsilio Ficino, nella sua opera De Vita Triplici, comincia a collegare il temperamento melancolico al genio e all’intellettuale.
Che il genio o l’artista sia un folle è in qualche modo diventato un luogo comune, e, secondo Theodor W. Adorno, questa idea è anche molto nociva, perché ci presenterebbe il mondo artistico come necessariamente decadente. Riflettendo però sugli ideali del Romanticismo, vediamo che, l’invenzione di Ficino nel collegare il genio con la melancolia riscuote grande successo ed entra a far parte di tutte le arti dell’epoca, inclusa la pittura, in cui al suo centro spesso è presente l’uomo solitario e isolato. Lo stesso tema sarà anche protagonista delle poesie e dei Lied più importanti. Inoltre, il distacco dal reale, e da sé, viene ulteriormente a rafforzarsi con l’estetica che comincia a considerare l’opera d’arte come la sublimazione dell’oggetto, come qualcosa che è al di là del reale tangibile. E non è proprio questo che succede all’uomo preso dal delirio, in cui il «soggetto non riesce più a dare una corretta lettura del mondo che lo circonda ma lo interpreta in funzione di un Io modificato»?
Lo stato alterato, la melancolia, inoltre «paralizza l’azione»; ma cosa succede se l’azione non è del tutto paralizzata – come nel caso Schumann, (per fortuna) – e ci dona un patrimonio musicale importantissimo? Allora, potremmo pensare che quell’azione paralizzata, è una vita paralizzata, in quanto incapace ad uscire e vivere all’infuori della vocazione del proprio genio, dunque del proprio lavoro creativo. Un’immagine simile ci ha proposto anche Giorgio Agamben che, riflettendo attorno alla pazzia di Hölderlin, distingue tra la vita abitante degli uomini, cioè la «vita vissuta secondo abiti ed abitudini», e la vita abituale – quella che, similmente a Schumann, Hölderlin passerà isolato – nella quale «quanto vi è di più comune e insignificante diventa infinitamente significante». Chissà, quante cose sfuggono a coloro che vivono nella ‘vita abitante’, chissà quante sono le cose che si reputano troppo insignificanti; ed è, forse, proprio in quella piccola increspatura della realtà che a noi sfugge inosservato, che il genio comincia a creare.
Articolo di Anna Farkas
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